IL PRINCIPIO DI RIEDUCAZIONE DEL CONDANNATO

IL PRINCIPIO DI RIEDUCAZIONE DEL CONDANNATO

Indice

LA FUNZIONE DELLA PENA

La funzione della pena

La pena, intesa come una sofferenza che lo Stato infligge a colui che abbia violato un precetto penalmente rilevante, consiste generalmente nella privazione o semplice diminuzione rispetto al godimento di un bene individuale (quale ad esempio la libertà) ed è uno dei maggiori strumenti con cui l’ordinamento giuridico di riferimento tende a garantire il rispetto delle regole poste a suo fondamento.

Tuttavia, la storia della pena – almeno sino all’avvento delle costituzioni moderne – è stata parecchio lontana dal considerare l’agente (ossia colui che realizza un comportamento vietato dalla legge penale) come uomo (e quindi come anima e corpo, riprendendo i dicta di Agostino d’Ippona) e la pena come strumento votato alla rieducazione del reo, ossia come un mezzo funzionale al ravvedimento dell’agente rispetto alla condotta attuata in concreto, e quindi alla sua reintroduzione all’interno della società (c.d. risocializzazione) senza il pericolo che il suo comportamento negativo si ripeta.

DALLA BARBARIE MEDIEVALE…

Sino agli inizi del XVIII secolo, infatti, in Europa – quel continente oggi formato da Stati, dalle comuni radici romanistiche, che vengono correttamente considerati come delle avanguardie rispetto a Stati meno civilizzati – dominava un sistema punitivo, improntato sul principio di autorità, che faceva leva sull’uguaglianza tra reato e peccato, cosicché la pena aveva una definizione eminentemente corporea: a tal proposito, vi era il dominio di pene corporali quali la berlina (gabbia in cui veniva rinchiuso il reo privo di indumenti ed esposto in pubblica piazza) e la pena capitale, con alcune varianti particolarmente crudeli (si pensi al c.d. squartamento, adoperato specialmente nel nord Europa).

Lo scopo era presto detto: data l’uguaglianza tra reato e peccato, il fine della pena era quello di purificare l’anima attraverso la punizione del corpo, considerato come il veicolo primario del male. Di fianco alla evidente disumanità della pena, si aggiungeva la tendenziale sommarietà dei procedimenti giudiziali, ovvero il carattere incerto dei motivi che legittimavano l’irrogazione di tale provvedimento (com’è noto, in età medievale molti uomini, accusati anche ingiuriosamente di praticare la stregoneria, venivano condannati al rogo per fatti non dimostrabili poiché immateriali).

…ALLA RIVOLUZIONE ILLUMINISTICA

Questo sistema venne però ribaltato dalla rivoluzione copernicana determinata prima dall’Illuminismo e successivamente dalle prime Costituzioni moderne, ove sono stati sanciti – pur in maniera generale e in assenza di discipline puntuali che oggi, invece, dominano i coevi sistemi penali – alcuni principi fondamentali che legittimano lo Stato al fine di determinare (in astratto) ed irrogare (in concreto) la pena, tra cui quello della rieducazione. Tra gli intellettuali che diedero un maggior contributo per la definizione di un siffatto sistema penale vi fu Cesare Beccaria, il quale, ne “Dei delitti e delle pene“, fissò il principio di legalità della pena – che oggi trova pieno riconoscimento nell’articolo 25 della Costituzione – e condannò aspramente la pena di morte.

IL FONDAMENTO DELLA PENA SECONDO L’ORDINAMENTO ITALIANO: L’ARTICOLO 27 DELLA COSTITUZIONE

Fondamento del principio di rieducazione della pena

L’art. 27, comma tre della Costituzione italiana – disposizione cardine del sistema penale italiano – prevede infatti che «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».

La rilevanza di una tale norma è in primis evidente nell’ottica dispositiva della funzione legislativa: se da un lato la pena, quale conseguenza negativa di un comportamento penalmente rilevante, opera certamente come un elemento di deterrenza rispetto ai comportamenti dei singoli (essa dovrebbe distogliere i consociati dal compiere comportamenti che l’ordinamento riprova), dall’altro la stessa, anche da un punto di vista astratto, non può che essere stabilita in via proporzionale rispetto al livello di riprovazione che l’ordinamento mostra verso una determinata azione (avrebbe infatti un effetto criminogeno – e cioè spingerebbe a rafforzare il proposito criminoso dell’agente – una punizione totalmente sproporzionata irrogata al solo fine di intimidire gli altri consociati). In tal senso, è necessario sottolineare come le norme penali abbiano il chiaro obiettivo di prevenire la commissione di reati (c.d. funzione general-preventiva del diritto penale), e questo non può che avvenire prevedendo pene – anche elevate – che risultino proporzionate rispetto al bene che si intende proteggere (ad esempio, il bene rappresentato dalla ‘vita dei consociati’ risulterebbe svalutato qualora si prevedesse per tutte le fattispecie di reato la pena più alta riconosciuta dall’ordinamento, cosicché l’omicidio verrebbe così parificato ad un reato meno offensivo come l’appropriazione indebita di un dato bene).

Tuttavia, riprendendo le parole della Consulta, «[…] il privilegio di obiettivi di prevenzione generale e di difesa sociale non può spingersi al punto di autorizzare il pregiudizio della finalità rieducativa espressamente consacrata dalla Costituzione» (in tal senso, Corte costituzionale, n. 183/2011), cosicché la funzione general-preventiva può perseguire i suoi obiettivi (ossia gli effetti di deterrenza ed orientamento culturale) entro gli stretti limiti della rieducazione, e quindi della funzione special-preventiva.

La norma in questione rileva chiaramente anche nell’ambito della funzione giurisdizionale: il giudice, nel comminare la pena stabilita entro un minimo e un massimo (c.d. cornice edittale), deve tenere conto di alcuni elementi – descritti puntualmente dagli artt. 132 e 132 c.p. – dai quali è possibile apprezzare il grado di offensività del comportamento concreto: in quest’ottica, colui che si appropria indebitamente di una mela sarà destinatario di una pena più mite rispetto a colui il quale sottrae un’ingente somma di denaro, e questo perché diversi sono i presupposti dell’azione, ovvero il grado di offensività deducibile dal comportamento concreto. In tal senso, l’eventuale irrogazione di una stessa pena per le due azioni concrete appena descritte – sebbene appaiano astrattamente riconducibili alla medesima disposizione – avrebbe anche in questo caso un effetto criminogeno, in quanto le due azioni non appaiono egualmente disprezzabili.

L’OPPORTUNITÀ DELLA RIEDUCAZIONE

Alla base del carattere rieducativo della pena vi è poi l’opportunità di rieducare: l’agente, infatti, deve aver voluto compiere il fatto di reato, ovvero non aver saputo evitarne la commissione. In altre parole, questi, per essere meritevole di una pena che possa avere un effetto rieducativo, deve essersi trovato nella condizione di potere o volere evitare il fatto, commettendolo rispettivamente per colpa o dolo (onde la sua responsabilità ex art. 27, comma uno Cost.). In caso contrario, si punirebbe un individuo che, nei fatti, non era nelle condizioni di evitare quel comportamento, e dunque pienamente non responsabile.

UN SISTEMA PENALE REOCENTRICO

Si è quindi dinanzi ad un sistema penale “antropocentrico” o, estremizzando la questione, si potrebbe anche definire “reocentrico: l’ordinamento – considerato sia nella funzione legislativa che giurisdizionale – tende già in astratto a stabilire una previsione punitiva coerente e proporzionata rispetto al bene giuridico da tutelare, e dunque a fortiori anche – e soprattutto – in concreto, giungendo ad attenzionare la figura del reo al punto da graduare la pena affinché essa possa assolvere alla sua funzione primaria, e cioè quella di garantire a colui che ha posto un comportamento errato una piena comprensione circa la riprovevolezza della sua azione od omissione, tanto da instaurare nella sua psiche una chiara presa di coscienza circa la negatività del suo comportamento.

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