IL VALORE DEL LAVORO NELL’OTTICA COSTITUZIONALE

IL VALORE DEL LAVORO NELL’OTTICA COSTITUZIONALE

Indice

Il lavoro, inteso come “qualsiasi attività dell’uomo che tenda a produrre ricchezze o ottenere un prodotto di una certa utilità generale o individuale”, il quale “non si esplica soltanto nelle sue forme materiali, ma anche in quelle spirituali e morali che contribuiscono allo sviluppo della società”, in virtù dell’articolo 1 della Costituzione rappresenta l’elemento su cui si fonda l’ordinamento italiano, il quale viene così qualificato come un sistema giuridico “proprio di una collettività sorretta esclusivamente dalle sue finalità di solidarietà sociale e di fattiva collaborazione tra i suoi membri”.

DALLA RILEVANZA DELLA RENDITA ALLA CENTRALITÀ COSTITUZIONALE DEL LAVORO

Sin dall’Ottocento, e segnatamente dal fiorire delle prime istanze di codificazione promananti dagli Stati situati nell’Europa centrale, gli ordinamenti giuridici del vecchio continente, accogliendo gli interessi della coeva medio – alta borghesia, si incentravano su di una esasperata rilevanza della rendita, la quale assurgeva in alcune particolari realtà ad interesse inviolabile in senso assoluto (si pensi all’art. 544 del Code Napoléon). Un tal contesto, oltre a privilegiare i proprietari immobiliari e terrieri, da un lato non valorizzava il lavoro come elemento di elevazione economica e sociale, e dall’altro dava adito alle notissime pratiche di sfruttamento dei lavoratori, le quali portarono nei decenni successivi a ferventi tumulti, di cui ancor’oggi, in un quadro giuridico molto differente, si rinvengono le tracce.
In totale contrapposizione col passato e volendo dare una impronta valoriale alla nascente Repubblica, il Costituente ha inteso concedere alla Carta costituzionale una fortissima impronta lavoristica (dal mero dato formale, si ricava il fatto che in Costituzione il termine ‘lavoro’ si ripete per ventisei volte), assumendo il lavoro come fondamento della Repubblica democratica italiana. Quella contenuta all’articolo 1 della Costituzione è chiaramente una evidentissima scelta di principio: se il lavoro è elemento fondante dell’ordinamento giuridico di nuovo corso, qualsiasi scelta politica, economica e sociale non può che essere valorialmente orientata al perseguimento o alla tutela di un tale interesse.

LA VISIONE FORMALE E SOSTANZIALE DEL LAVORO IN COSTITUZIONE

Il citato articolo 1 della Costituzione, in coerenza con l’originale idea del Costituente, intende fare riferimento al lavoro nelle sue molteplici forme, considerandolo così nella sua generalità: il riferimento di questa disposizione – in ragione anche della sua posizione di primazia rispetto alle altre – è effettuato verso qualsiasi forma di lavoro, sia essa materiale o intellettuale (ex art. 2094 c.c.), morale o spirituale.

Ergo, qualunque forma di prestazione lavorativa è, per il solo fatto di essere posta in essere, meritevole di tutela, a prescindere dalle esigenze concrete del lavoratore. Si vuole così assicurare la c.d. tutela minima, di cui in tal senso gode qualsiasi lavoratore, a prescindere dalle concrete specificità della propria attività.

Tuttavia, la Costituzione non si nasconde dietro il mero dato formale, ed è questo uno dei tanti motivi che permette di individuarla come il maggiore sintomo di una raggiunta civiltà giuridica.
Il Costituente, infatti, coerentemente con gli ideali (anche contrapposti) da cui era mosso, ha ritenuto doveroso inserire all’interno del dettato costituzionale alcuni importanti riferimenti, ispirati ad una visione sostanziale del lavoro: recependo la diversità delle singole e concrete attività lavorative e assunta la maggiore esigenza di tutela di quei lavoratori posti in una condizione socioeconomica parecchio svantaggiata, ha inteso dettare principi atti a garantirne l’effettività della cura rispetto ai loro interessi e diritti fondamentali.

In questa ottica, la disposizione dalla quale può intendersi questa evidente intenzione è rappresentata dall’articolo 3, comma due della Costituzione, ove, trattando dell’uguaglianza sostanziale che la Repubblica è tenuta a garantire verso tutti i cittadini, vi è un riferimento esplicito alla figura dei lavoratori, imponendosi allo Stato la garanzia della “effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. A ben vedere, il rimando alla figura dei lavoratori avrebbe potuto anche non esserci: essi, in quanto cittadini, beneficerebbero in ogni caso della tutela egualitaria in senso sostanziale; appare però evidente il fatto che la Costituzione, dopo aver assunto il lavoro come fondamento della Repubblica ex articolo 1, abbia avuto l’intenzione di rimarcare in senso esplicito l’attenzione verso la dinamica sostanziale del lavoro, designando già nei Principi fondamentali (artt. 1 – 12) una netta differenza tra le diverse fattispecie concrete.
Non è quindi casuale o superfluo un tale riferimento, ma consiste propriamente nella netta decisione valoriale, così orientando ancora una volta la Carta costituzionale all’attenzione verso il dato fattuale derivante dalle dinamiche sociali.

A conferma di questa visione, sovviene in maniera ancora più marcata ed evidente la disposizione di cui all’art. 36 della Costituzione, ove si prevede il diritto del lavoratore a ricevere una retribuzione proporzionata rispetto alla sua opera, la quale deve essere in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.
Essa rappresenta una delle maggiori rilevanze pratiche (e probabilmente la più importante) rispetto a quanto previsto dall’articolo 3, e ciò in quanto l’effettiva partecipazione del lavoratore alla vita politica, economica e sociale del Paese non può che passare dalla garanzia della propria libertà e dignità sociale e professionale. In questo senso, la retribuzione rappresenta una delle maggiori discriminanti al fine di garantire i diritti propri del lavoratore, e ciò in quanto essa concorre alla materiale possibilità di ottemperare ai bisogni individuali e della propria famiglia, nonché all’apprezzamento e al valore (anche immateriale) rispetto all’opera prestata.

Si noti, comunque, la convivenza di due diverse anime all’interno di una tale disposizione: da un lato, la proporzionalità è un chiaro riferimento ad una visione prettamente liberale e tende a garantire al lavoratore una retribuzione superiore all’aumentare (quantitativo e qualitativo) della propria opera; dall’altra, invece, la sufficienza rappresenta un forte limite al principio proporzionalistico, in quanto essa tende ad individuare un minimum al di sotto del quale il datore di lavoro non si potrebbe spingere; diversamente, infatti, il lavoratore vedrebbe pregiudicato nella sua sfera di libertà e dignità professionale ed umana

LA FISIONOMIA GIURIDICA DEL DIRITTO DEL LAVORO

Aspetto parimenti rilevante è quello relativo alla fisionomia giuridica del diritto al lavoro.
Sebbene l’articolo 4 della Costituzione riconosca “a tutti i cittadini il diritto al lavoro” – annoverando peraltro tale disposizione tra i principi fondamentali – chiunque è a conoscenza del fatto che, nonostante il raggiungimento dei requisiti richiesti dalla legge, non tutti i cittadini hanno un lavoro, ovvero esercitano una professione. Questa parrebbe una contraddizione in termini: se la Repubblica si fonda sul lavoro e vantando ogni cittadino un tale diritto, sembrerebbe un paradosso che questi si sprovvisto di un lavoro, e potrebbe porsi in apparenza come una intrinseca violazione della Costituzione.

In tal senso, quindi, occorre dare una corretta visione circa la natura di un diritto così rilevante. Nonostante il suo inserimento tra i principi fondamentali, la disposizione di cui all’art. 4 della Costituzione deve essere letta in senso diverso rispetto ad altre disposizioni – parimenti fondamentali – che stabiliscono in via di principio alcuni diritti che l’individuo può vantare per il solo fatto di essere cittadino, ovvero per nascita (vedasi, ad esempio, l’articolo 2 della Costituzione). In ispecie, quello al lavoro deve essere inteso come un diritto fondamentale da ricondurre nell’alveo della potenzialità: l’individuo – o in senso specifico, il cittadino – non nasce vantando ex se un diritto ad avere necessariamente un lavoro, la cui mancanza determina in ogni caso una lesione della propria sfera giuridica da parte delle istituzioni.

La Repubblica, infatti, ha il dovere di promuovere “le condizioni che rendano effettivo questo diritto”, ma non andrebbe a ledere alcuna sfera giuridica qualora, per motivi di politica macroeconomica ovvero per mancanza di necessità strutturale, non riuscisse a garantire un tale diritto a tutti i suoi cittadini singolarmente considerati. Diversamente, essa sarebbe responsabile qualora dovesse attuare azioni politiche che andassero simmetricamente contro un tale valore, sempreché non vi sia un interesse parimenti rilevante da dover perseguire. Da qui la concezione del lavoro come diritto potenziale, la cui cura formale e sostanziale spetta alla Repubblica, la quale, nella figura delle sue istituzioni, non può che operare nell’ottica di favorire le condizioni atte a concedere effettività ad un diritto così rilevante, pur non garantendosi una tutela giuridica per una sua ‘violazione’ meramente astratta consistente, ad esempio, in uno status di disoccupazione in cui versa un cittadino.

Una tale notazione – evidentemente doverosa – non comporta una svalutazione di un tale valore e del rispettivo diritto: secondo la definizione di Mortati, al lavoro spetta un ruolo infungibile ed essenziale rispetto alla “libera determinazione di ogni soggetto, quale strumento di affermazione della personalità”. In questa ottica, la Costituzione, pur con i dovuti limiti giuridici, ne afferma la assoluta rilevanza, elevando, come visto, a fondamento della Repubblica, di cui essa stessa è madre.

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